La missione ecclesiale nello spazio urbano

Intervista a Paolo Carrara

Inauguriamo con il nuovo anno una rubrica di approfondimento di libri scelti tra le proposte di Glossa

Paolo Carrara (ed), La missione ecclesiale nello spazio urbano. Percorsi storici, questioni teoriche, ricerche pastorali.

 

I contributi di questo volume, nati per un percorso di formazione dei preti delle parrocchie di Bergamo intitolato “La parrocchia missionaria e il ministero pastorale” e per sostenere i lavori del Consiglio presbiterale della Diocesi di Bergamo nellanno pastorale 2020-21 sul tema della missione ecclesiale, intrecciano istanze della società, analisi di percorsi storici e teologici e ricerche pastorali. Ne nasce il confronto con uno spazio “di missione” nuovo, più ibrido e dai contorni certamente meno netti che in passato, per interagire con il quale è necessario ripensare, con l’aiuto della teologia e  sotto la spinta dell’attuale Magistero, il senso e le forme della missionarietà della Chiesa oggi.
Ne abbiamo parlato con don Paolo Carrara, docente di Teologia Pastorale per il Ciclo di Specializzazione della Facoltà Teologica dellItalia Settentrionale oltre che presso la Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo e lIstituto Superiore di Scienze Religiose di Bergamo e che  del volume è curatore e autore.

La Chiesa sin dalle sue origini è missionaria. Ma se l’annuncio è connaturato alla sua esistenza, quali sono le novità nel parlare di missionarietà, oggi?

La missione della Chiesa è sempre la stessa: l’annuncio e la testimonianza del Vangelo. Al contempo, essa è sempre nuova, perché nuove sono le persone, la storia e la cultura a cui Dio si rivolge e dunque a cui la Chiesa è inviata. Oggi questa tensione tra antico e nuovo è soggetta ad elementi di trasformazione che sono radicali. In un contesto come quello occidentale a cui apparteniamo, si può sinteticamente dire che la Chiesa non contiene più il territorio a cui il suo annuncio si rivolge, ma è il territorio a contenere la Chiesa: essa è una delle tante realtà sociali e istituzionali. Questa prospettiva nuova, di non centralità, non è appunto solo di carattere geografico: la non centralità investe anche il campo simbolico e l’interpretazione della vita come tale. A ciò si aggiunge – è un secondo elemento tipico dell’oggi – la perdita di fiducia verso la Chiesa, anche a causa degli scandali che l’hanno investita in questi ultimi anni. Si tratta di un fenomeno complesso e diffuso, che richiede un lavoro profondo di ri-acquisizione di significatività delle persone, ma anche delle mediazioni di cui la Chiesa si avvale (riti, linguaggio…). 

È questo il cambiamento di epoca di cui parla Francesco?

Sì, con la sua affermazione dalle molteplici sfaccettature secondo cui non siamo in un’epoca segnata da cambiamenti plurimi, ma da un cambiamento radicale complessivo, di epoca appunto. La provocazione del papa però si spinge oltre. Noi siamo abituati a immaginare che la forma della Chiesa sia sempre stata la stessa, siamo cresciuti con la convinzione che ci fosse un’unica figura di Chiesa – quella del tempo di cristianità – e con l’obiettivo di conformarvisi. Ma la Chiesa, alle origini, non era affatto così, e nella storia si sono succedute figure diverse di Chiesa. Il papa ce lo ricorda, chiedendo alla comunità cristiana di darsi una forma adeguata a questo tempo.  Affinché ciò accada – egli sembra aggiungere – bisogna ricordare che ogni comunità cristiana aveva proprie peculiarità e modi propri di trasmettere l’insegnamento di Gesù (basterebbe pensare alle Chiese del Nuovo Testamento). Uno dei tratti specifici dell’oggi, anche per la Chiesa, è dunque il bisogno di una sana decentralizzazione. 

Tutto ciò apre ad un’altra questione non facile, ben presente nel libro: il diverso modo di intendere l’affermazione o rinuncia alla centralità porta a dividersi, all’interno della Chiesa, in tradizionalisti e progressisti. Come si esce dal rischio di una polarizzazione che rende debole, quando non impossibile, il dialogo?

Questa distinzione, seppure riduttiva, consente di entrare nel problema. Non si tratta infatti di negare le differenze, talvolta anche nette, ma di riconoscere che c’è una tensione necessaria e generativa per la Chiesa. Si tratta di una tensione strutturale, che sarebbe ingenuo pensare di risolvere una volta per tutte e in maniera univoca: quella tra fede e cultura. La fede, già plasmatasi in una cultura, si confronta con ogni nuova cultura, ma al contempo compito della fede non è sposare una determinata visione culturale, ma contribuire a plasmarla. Per fare questo è necessario superare i paradigmi teologici nei quali si rischia di restare imbrigliati: da una parte quello degli “indietristi” – come li ha più volte definiti papa Francesco – ovvero di coloro che confondono la Tradizione con il “tornare indietro”; dall’altra quello di coloro che leggono tutto come provvidenziale, non sapendo cogliere anche i limiti che una cultura porta con sé. Occorre, invece, cercare di tener vivo quell’atteggiamento tensionale tra dare e ricevere, plasmare e imparare senza il quale non è possibile dialogare con la cultura. Anche nelle sfide più recenti, come le questioni di bioetica e di genere, questo atteggiamento non dovrebbe mai venir meno.

Il rischio però è che, nel mantenere questa tensione, la Chiesa resti nell’ambiguità, o almeno così venga percepita, come è già accaduto su altri temi in passato: se da una parte sembra suggerire un atteggiamento di apertura e dialogo, ad esso non fa seguire parole chiare, lasciando i singoli nell’incertezza e spesso nella sofferenza.

Innanzitutto va tenuto sempre presente che questi movimenti non sono qualcosa con cui la Chiesa si confronta come se li avesse unicamente davanti a sé. Sono movimenti che la Chiesa ha dentro, che vive al suo interno. E, per quanto difficili, sono vitali.

Così, se è compito del Magistero muoversi con estrema cautela in ogni terreno nuovo, nella misura in cui è in gioco il tesoro del Vangelo che la Chiesa custodisce senza possederlo, allo stesso tempo va riconosciuto che c’è un vissuto ecclesiale necessariamente più ibrido, variegato e per questo anche più conflittuale. Tra i compiti della teologia vi è quello di mettersi in ascolto di questo vissuto, con movimenti di andata e ritorno tra esso e la Tradizione ecclesiale complessiva. C’è un’obbedienza del popolo di Dio all’autorità della Tradizione, ma c’è un contributo alla sua comprensione nell’oggi che l’insieme del popolo di Dio può dare.  

Sarebbe questa la “Chiesa altra” che sogniamo, come si legge in uno dei contributi del volume?

Non possiamo cercare un’altra Chiesa, ma una “Chiesa altra” sì. Tra i suoi tratti oggi viene invocata una rinnovata sinodalità. Essa non consiste solo in una ridistribuzione di compiti ma ha a che fare con il cuore della missione della Chiesa, l’annuncio del Vangelo. Affinché esso sia adeguato, oggi più che mai è necessario far tesoro di quel bagaglio di fede e di competenza di tutti, in particolare dei laici con la loro esperienza in ogni campo della vita, dalla medicina all’economia, dalla famiglia alla politica. Questo rinnovato modo di essere Chiesa non prescinde dalle figure di autorità, ma non è riconducibile solo ad esse. È un cammino che tutto il popolo di Dio deve compiere, nuovamente, e insieme.

 

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