1. L’IDENTITÀ DELLA TEOLOGIA
Una Facoltà universitaria, così come ogni istituto di ricerca scientifica, non dovrebbe avere altro “orientamento” che quello imposto dallo stato obiettivo della disciplina o, rispettivamente, delle discipline coltivate. Quando si tratti in specie, come nel nostro caso, di discipline teologiche, una facoltà non ha diritto di riconoscere altra “ortodossia” che quella della fede cattolica.
Così di fatto è. La Facoltà non riconosce alcun limite alla ricerca teologica prodotta al suo interno, se non quello della “ortodossia” (se pure questo può essere definito un “limite”…).
Occorre tuttavia rilevare come lo “stato obiettivo” della teologia, nella congiuntura presente, sia estremamente confuso: e quindi anche difficilmente decifrabile.
Per un lato, si produce un fenomeno di dispersione delle singole discipline nelle quali si articola la teologia stessa (fondamentale, dogmatica, morale, sacra scrittura, storia ecclesiastica, e così via). È venuto infatti a mancare quel principio di unità che un tempo sembrava garantito dal privilegio di fatto riconosciuto alla “dogmatica”. Per altro lato, si produce un fenomeno di dispersione dei diversi indirizzi teorici: dicendo “dispersione” intendiamo sottolineare non l’aspetto del dissenso teorico, ma quello del difetto del confronto reciproco.
Tale situazione è di fatto oggi spesso, troppo precipitosamente e nominalisticamente, legittimata appellandosi al “pluralismo”, vuoi dei “metodi” che delle “teorie”. La legittimazione invocata esonera dal confronto, e quindi dalla formalizzazione del possibile dissenso, premessa indispensabile per la ricerca di un suo superamento.
Correlativa a tale situazione di fatto è una prima caratteristica programmatica della Facoltà: quella di contrastare la frammentazione del discorso teologico a cui concluderebbe una pura e semplice “resa” alla pluralità delle discipline teologiche, o addirittura delle “teologie”. Pluralità infatti non può darsi altro che nell’ambito di una comune o più fondamentale ricerca dell’identità della teologia. Appunto il riferimento a tale identità fondamentale può e deve controllare il legittimo pluralismo, impedendo che esso diventi arbitrio.
Si obbietterà forse che questa non può essere una caratteristica “specificante” la Facoltà: che questa preoccupazione ha da essere comune ad ogni Facoltà teologica. Consentiamo con l’obiezione, riservandoci per altro di verificare se e quanto quella preoccupazione sia effettivamente presente in altri istituti di ricerca teologica. La produzione teologica corrente – salve certe apprezzabili eccezioni – non sembra curare molto l’attenzione a questa questione fondamentale.
2. LA QUESTIONE DEL METODO
L’attenzione ad una questione di carattere tanto fondamentale quale è quella rappresentata dalla domanda “che cos’è la teologia?” costituisce l’aspetto di verità di una immagine della Facoltà abbastanza diffusa, e insieme esposta a parecchi fraintendimenti. Ci riferiamo all’immagine che rappresenta la nostra Facoltà come qualificata, o addirittura come “ossessionata” dalla questione del “metodo”. L’immagine genera facilmente l’obiezione: la Facoltà si occupa solo, e comunque troppo, di questioni formali e poco della “cosa” cristiana, cioè di Gesù Cristo e del suo vangelo.
A tale riguardo ci sembra utile fare anzitutto due precisazioni.
L’interesse per la domanda fondamentale “che cos’è la teologia?”, e quindi anche l’attenzione ai problemi “metodologici”, in qualche modo conseguente, non intende in alcun modo definire l’oggetto esclusivo, o anche quello privilegiato, della ricerca della Facoltà. Intende invece semplicemente definire un profilo “formale” dal quale nessuna disciplina teologica parziale e nessuna elaborazione di temi teologici concreti può prescindere. Esattamente il rispetto di tale profilo garantisce la possibilità e la necessità di un confronto argomentato tra le singole specializzazioni. Impedisce invece ogni pretesa di rifugio/auto-sequestro all’interno della rispettiva specializzazione. Riferiamoci ad un caso emblematico. L’esegeta non può dire: questi sono i risultati del mio lavoro, condotto secondo il mio speciale “metodo”; quanto alla loro rilevanza sotto il profilo della fede o del costume cristiani se ne occupino il dogmatico o il moralista. La fede che da sempre legge il testo biblico, e anche lo intende (in qualche modo) e ne vive praticamente la verità è un presupposto della stretta esegesi teologica. La fede a cui alludiamo, d’altra parte, non può essere intesa in termini soggettivistici (la “mia” fede); ma è la fede professata dalla Chiesa tutta; la sua identificazione riflessa da parte dell’esegeta esige anche in lui una fondamentale competenza teologica generale. Tale competenza, per un lato offre insieme le condizioni per un confronto argomentato tra esegeta e teologo sistematico; per altro verso abilita l’esegeta a riconoscere come anche nel suo lavoro specialistico siano in gioco le questioni generali che comandano tutta l’intelligenza teologica.
La risposta alla domanda ambiziosissima “che cos’è la teologia?”, non può essere trovata quasi a monte rispetto all’esercizio effettivo della ricerca teologica e dunque a monte rispetto alla più fondamentale domanda “qual è la verità della fede?”, o sinonimamente “qual è la verità della rivelazione cristiana?”. Non c’è in tal senso un “metodo” elaborato a monte rispetto all’effettivo cimento dell’intelligenza con ciò che la fede in qualche modo già “sa”. Detto altrimenti, la teologia non è sapere “metodico”; non è sapere i cui canoni di verità possano essere anzitutto formulati in astratto, per poi essere applicati ai singoli temi e problemi cristiani.
Se con il termine “metodo” si intendessero appunto canoni di tal genere, secondo l’accezione prevalente nella storia del pensiero moderno, allora dovremmo dire che la Facoltà non solo non si occupa del “metodo”, ma non crede che sussista un “metodo” della teologia. L’idea della “verità” quale controllabilità (o verificabilità) degli asserti sulla base di un “metodo” definito una volta per tutte costituisce l’ideale del sapere scientifico moderno. L’ideale delle scienze della natura, anzitutto; ma poi anche, per molta parte, l’ideale della storiografia positiva. Il progressivo affinamento del metodo storico-critico nell’ambito delle stesse discipline teologiche “positive” (sacra scrittura, storia delle dottrine cristiane, ecc.) è largamente condizionato dall’affermarsi di un metodo corrispondente nelle scienze storiografiche in genere. La recezione del metodo storico-critico ha costituito fin dall’inizio del secolo e con diverse vicende, un primo consistente cespite di aporie per la teologia cattolica; esse permangono non risolte, o quanto meno non risolte in maniera adeguata e generalmente riconosciuta. I limiti del cosiddetto metodo storico-critico sono oggi certo diffusamente denunciati a livello teorico; ma di fatto esegeti e storici del cristianesimo continuano ad operare fondamentalmente secondo i canoni di quel metodo.
3. TEOLOGIA E “SCIENZE UMANE”
L’inclinazione di tanta parte della teologia del ’900 a configurarsi come sapere “positivo” è certo alimentata – per quanto equivocamente – da un dato di fatto indubitabile: la teologia ha a che fare con “testi”, ha a che fare con “accadimenti”. Ma è anche alimentata, sotto diverso e complementare profilo, dall’effetto di attrazione esercitato dalle diverse forme del sapere “scientifico” (storiografico) che si occupano delle “cose” cristiane. I risultati raggiunti da tale sapere – precipitosamente apprezzato come “scientifico” perché conforme ad un “metodo” – sono considerati come “dati” dai quali lo stesso sapere teologico non potrebbe prescindere. Un fenomeno analogo si produce per quanto riguarda il rapporto della teologia con altre forme del sapere contemporaneo valutate come “scientifiche”: ci riferiamo al confuso campo delle “scienze umane”. Il rilievo delle conoscenze proposte dalla psicologia, dalla sociologia, dall’antropologia culturale, per la teologia è complessivamente indubitabile; ignorare tali conoscenze sarebbe come condannare la teologia ad un discorso lacunoso ed esposto ad incontrollabili critiche, specie per quanto attiene alle materie morale e sociale. D’altra parte – così si dice – a tali “scienze” deve essere riconosciuta la legittima autonomia appunto in forza del loro “metodo” specifico. Accade quindi con certa facilità che la produzione teologica proceda dai risultati delle cosiddette scienze umane – semplicemente citati e non compresi, né tanto meno verificati nella loro pertinenza – aggiungendo ad essi affermazioni di valore “specificamente” teologico, che appaiono di fatto allegorismi di dubbio valore. Riferiamoci ad un esempio. Nel confronto tra teologia morale e psicanalisi è stato corrente per molti anni uno schema di argomentazione di questo genere: la critica di Freud è pertinente nei confronti di una morale del super-io (o magari di una morale della “legge”); ma la coscienza morale autentica è un’altra cosa. In realtà, per una coscienza morale autentica non c’è obiettivamente alcuno spazio, quando si adotti uno schema teorico come quello di Freud. Non si possono dunque recepire i “risultati” di Freud, salvo poi aggiungere a latere altro. Occorre viceversa cimentarsi con la comprensione e quindi con la critica del progetto teorico stesso.
Il rimedio a tale difetto esige che il confronto tra teologia e scienze umane non si limiti al livello dei risultati, né tanto meno si configuri come una sorta di recezione teologica di tali risultati, ma investa le questioni fondamentali proposte da quei progetti teorici che di fatto le scienze umane realizzano. Appunto a tale profilo di carattere fondamentale la ricerca teologica prodotta in Facoltà intende essere attenta.
4. LA “VAGUE” ERMENEUTICA
Negli ultimi decenni assistiamo, a livello di dibattito culturale generale, a inequivocabili sintomi di una crisi (o diciamo meglio, di una nuova crisi) del prestigio delle “ scienze”, e dello stesso ideale del sapere “scientifico” in genere.
Il tratto più generale (e, certo, anche più generico) della crisi in questione è quello connesso al riconoscimento dell’insolubile nesso tra sapere e società, o rispettivamente, tra sapere e cultura ambiente. Nessun progetto “scientifico” può in ultima istanza emanciparsi dalle tradizioni sociali su cui poggia; se non altro (ma c’è anche altro) ogni progetto dipende dal linguaggio non formalizzato della comunicazione odierna. Non c’è in tal senso alcun “metodo” capace di sollevare il sapere “scientifico” dalle inoggettivate e inoggettivabili condizioni sociali del suo costituirsi. Le “scienze dure” – come sono state chiamate le scienze moderne della natura, e in genere le scienze positive ed analitiche – sono in crisi; così come ogni forma di “pensiero forte” in filosofia. L’esito di tale crisi non può per altro essere quello di un “pensiero debole”, qualora per “pensiero debole” si intenda un pensiero che abdichi alla pretesa della verità. Non può essere questo, quanto meno, l’esito a cui si rassegna la teologia, e cioè il sapere della fede, che come tale intende – e non può non intendere – essere pensiero della verità.
Tra le forme di “pensiero debole” che minacciano più da vicino la teologia, è quella costituita da un certo pensiero ermeneutico, che semplicemente sostituisce il criterio del significato al criterio della verità. Secondo tale pensiero, la tradizione – o più precisamente il complesso delle tradizioni – costituisce l’orizzonte intrascendibile del soggetto, ed anzi costituisce senz’altro il soggetto nella sua identità storica concreta. Ogni sapere è in tal senso sapere a procedere da un “punto di vista”, da un “orizzonte determinato”. È certo possibile allargare tale “orizzonte” mediante l’accostamento di sempre nuove tradizioni, la cui comprensione si integra e ulteriormente plasma il punto di vista originario. Ma rimane definitivamente preclusa al soggetto ogni prospettiva che pretendesse di voler essere ultima e incondizionata.
I riflessi di un tale pensiero ermeneutico sulla teologia sono facilmente prevedibili. Il vangelo, e la tradizione di Gesù in genere, diventa al massimo – e appunto a questo massimo mira la riflessione teologica – un repertorio utile in ordine all’articolazione del “significato” di ciò che il soggetto di fatto vive… una parola “morbida” della quale ciascuno può fare utilmente uso. Non giunge invece ad essere “la verità”: quella verità “dura”, tagliente come una spada, di fronte alla quale l’uomo deve decidere di sé.
La questione fondamentale che oggi si pone alla teologia ci sembra appunto questa: pensare la verità del vangelo. Più precisamente pensare l’aspetto ovvio e noto alla fede di tutti i tempi, per cui il vangelo ha da imporsi alla coscienza di tutti gli uomini come pietra di inciampo, come tensione ineludibile di una decisione: credere e trovare nella verità del vangelo “giustificazione” per la propria vita, oppure rifiutare la fede ed essere dal vangelo giudicato.
5. DAL BINOMIO FEDE-RAGIONE AL BINOMIO SAPERE-LIBERTÀ
I rapporti fra la teologia e le nuove forme del sapere “scientifico”, come già quelli tra la teologia e le forme moderne della filosofia emancipata dalla teologia, sembrano viziati da un pregiudizio fondamentale: quello per cui la “ragione” sarebbe facoltà definita a prescindere dalla “fede”, capace di una propria conoscenza parziale, e tuttavia “vera”. All’evidenze della “ragione”, indubitabili e di fatto riconosciute dalla stessa coscienza credente (o rispettivamente dalla teologia) si aggiungerebbero le ulteriori e particolari “evidenze” della fede: evidenze queste fra virgolette, nel senso che esse sarebbero un po’ meno obiettive di quelle della ragione, in quanto esigerebbero una scelta libera del soggetto per essere insieme accettate e riconosciute.
In realtà invece, una “ragione” comunque concepita, ma in ogni caso intesa come facoltà di conoscenza senza libertà, poggiata cioè su di una evidenza che per dischiudersi alla coscienza non ha bisogno di libero consenso, non esiste. La “ragione” non è una facoltà, ma semmai un aspetto astratto di ogni conoscenza complessiva dell’uomo. Ogni sapere a proposito della verità, e quindi a proposito di se stessi, suppone la determinazione di sé da parte dell’uomo. Più precisamente, suppone quella determinazione di sé che ha la forma dell’accordar credito a ciò che si mostra come attendibile: suscettibile cioè di essere “atteso”; o addirittura, tale da dover essere atteso. Il “dovere” di cui qui si dice è quello imposto dalla fedeltà dell’uomo alle mille promesse di fatto iscritte nel suo comportamento immediato e più in generale nelle forme sociali del patto stretto fra tutti gli uomini in forza della loro quotidiana vita comune.
Ogni sapere a proposito della verità suppone, in tal senso, una fede. E d’altra parte, il sapere a proposito della verità è indissolubilmente sapere a proposito di ciò che regna sulla nostra vita, e non invece a proposito di ciò che starebbe a nostra disposizione.
Appunto il chiarimento teorico di tale nesso originario tra sapere e libertà costituisce uno dei fuochi fondamentali della ricerca che si produce in Facoltà.
6. IL TEMA ANTROPOLOGICO
Indichiamo in forma necessariamente sommaria, alcuni nodi tematici e problematici che si dispongono quasi a guisa di “corollari” intorno al fuoco indicato, quello cioè dell’originario nesso di sapere e libertà.
A livello di riflessione antropologica appare urgente il superamento dello schema convenzionalmente indicato come “antropologia delle facoltà”: è questo lo schema che procede immediatamente alla considerazione distinta delle “facoltà” dell’uomo (schematicamente: ragione, volontà, appetito), incontrando successivamente – e tardivamente – il problema dell’unità della coscienza. In realtà, dalla coscienza e dalla sua indubitabile unità – per quanto certo anche problematica unità – occorre procedere, riconoscendo il carattere astratto della pur necessaria distinzione. L’unità della coscienza d’altra parte, e quindi l’identità dell’uomo, è quella che originariamente si manifesta non ad una considerazione “teoretica”, e per ciò “astratta”, ma nell’atto stesso della libertà, o rispettivamente nel quadro dell’esperienza pratica dell’uomo. Il superamento dell’“intellettualismo” comporta di necessità una istruzione fenomenologica dell’interrogativo antropologico che prenda in considerazione le figure del desiderio, dell’esperienza “psicologica” in genere, e ne espliciti il rilievo in ordine all’affermarsi dell’evidenza della libertà.
La ricerca antropologico-fondamentale alla quale si accenna costituisce insieme il presupposto necessario per un radicale rinnovamento della teologia morale: un capitolo questo della teologia particolarmente mortificato nella tradizione moderna (quella che sola conosce, con la separazione della theologia moralis dalla più comprensiva theologia scholastica); o addirittura un capitolo scaduto dal livello di vera e propria disciplina teologica al rango di disciplina pratico-pratica o “pastorale” (in un’accezione per altro riduttiva di tale aggettivo: disciplina ausiliaria per il “pastore”).
Il rinnovamento della teologia morale cattolica, sulla cui urgenza non è necessario insistere, passa di necessità attraverso il superamento di quella sorta di “sequestro” della morale dalla dogmatica, che tanto ha nuociuto alla morale, ma – se stanno le considerazioni sopra sommariamente evocate – tanto ha nuociuto alla stessa dogmatica.
7. LA COSCIENZA SIMBOLICA
Alla qualità libera e quindi pratica del rapporto tra coscienza e verità è strettamente connessa la qualità simbolica del medesimo rapporto. Parlando di qualità simbolica intendiamo riferirci, negativamente, all’impossibilità di una positiva determinazione della verità nella forma del “concetto”; positivamente, all’aspetto per cui la parola che dice la verità è parola mediante la quale è detta l’intenzione di un atto: l’atto della libertà appunto, o rispettivamente l’atto della fede.
L’interesse per il tema del “simbolo” è oggi abbastanza diffuso: ma anche abbastanza confuso; è infatti interesse per molta parte alimentato dalla crisi dell’ideale “scientifico” e “oggettivante” del pensiero, ma non alimentato da una ripresa della riflessione fondamentale. Chiarire la figura della “coscienza simbolica”, e mostrare come il riconoscimento di questa figura possa realizzarsi senza concludere all’arbitrio di un pensare per metafore anziché per concetti, costituisce una delle articolazioni cruciali della ridefinizione della verità della fede, e rispettivamente della teologia, come forme di sapere argomentato e argomentabile. Costituisce insieme l’indispensabile sfondo teorico generale per il rinnovamento di un capitolo della teologia particolarmente carente: quello della teologia sacramentaria. Il difetto di sviluppo – quanto meno di pertinente sviluppo – di tale capitolo, si mostra in particolare attraverso questo indice concreto: la permanente separatezza fra teologia “sacramentaria” e “liturgia” (intesa qui come disciplina che si occupa delle forme concrete della celebrazione). Tale separatezza nuoce insieme all’una e all’altra disciplina, e nuoce alla fine alla stessa prassi liturgica della Chiesa. La recente riforma, ispirata ad una ricerca liturgica attenta soltanto al “dato” positivo (quello biblico, e rispettivamente quello della tradizione liturgica antica) e non adeguatamente attenta invece ai problemi teorici più generali sollevati dal “rito” nell’attuale temperie culturale, rischia di configurarsi come semplice riforma dei libri liturgici, lasciando il resto – e cioè le forme pratiche della celebrazione – all’arbitrio delle singole assemblee.
8. LA FEDE NELLA STORIA
Il programma di riflessione fondamentale perseguito nella Facoltà predispone le motivazioni ed insieme le categorie per un rinnovato interesse della teologia per le forme storiche della coscienza e rispettivamente della fede.
Forme storiche della coscienza chiamiamo qui in generale quelle connesse alla “cultura ambiente”, e più complessivamente alla qualità del rapporto sociale contemporaneo. Nonostante tutte le precisazioni recentemente proposte a tale diagnosi, rimane nei tratti generali difficilmente contestabile una deriva “secolarizzante” della cultura contemporanea. Riconoscendo una tale deriva non si intende precipitare alcun giudizio circa il destino della “religione” o rispettivamente del “senso religioso” nella nostra epoca. Un tale “senso” – comunque debba essere successivamente precisato – certo sopravvive, né potrebbe non sopravvivere: e tuttavia esso, trovando sempre minori opportunità di definizione attraverso le forme simboliche che di fatto soggiacciono alla scambio sociale, tende a rimanere (o a regredire) alla forma del puro e indistinto “sentimento”. Ciò che si dice del senso religioso vale anche – sia pure con le dovute precisazioni – a proposito del “senso morale”: l’interesse teologico attuale per le “forme storiche” della coscienza è suggerito da questa duplice costatazione.
Per un lato, la coscienza ha imprescindibile bisogno del riferimento ai codici culturali del senso per istruire la stessa decisione di fede nell’evangelo, e quindi tutte le forme dell’agire concreto nelle quali quell’unica scelta si articola. Ma d’altra parte, tali codici appaiono prima facie preclusivi nei confronti della trascendenza religiosa ed etica. La fede rischia, in tali situazioni, di rannicchiarsi nello spazio angusto di un “sentimento” privatissimo, incapace di farsi testimonianza pubblica e principio di discernimento del complesso campo dell’esperienza civile dell’uomo contemporaneo. La chiarificazione di tale rischio, e quindi l’elaborazione delle strategie necessarie ad evitarlo, costituisce un compito imprescindibile della teologia quale intelligenza della fede.
Il cristiano comune non deriverà però certo dalla teologia le risorse necessarie a vivere la fede nell’attuale orizzonte storico culturale. Tali risorse debbono essere invece a lui offerte dal ministero della Chiesa nel suo complesso. Accertare le ragioni di pertinenza e di minore pertinenza delle forme storiche concrete che assume di fatto tale ministero, ed elaborare quindi linee orientative per la sempre necessaria riforma pastorale della Chiesa, costituisce un altro impegno caratteristico della teologia (teologia pratica, o pastorale), la cui necessità è diffusamente avvertita, ma la cui concreta realizzazione rimane ancora assai acerba. Esso costituisce un ulteriore sforzo della ricerca condotta in Facoltà.
9. TEOLOGIA E SANTITÀ CRISTIANA
L’interesse della teologia per le forme storiche della fede si esprime, nella nostra Facoltà, anche attraverso il programma di ricerca intitolato alla teologia spirituale. A stento si può parlare di una tradizione per tale capitolo della teologia; il compito che obiettivamente si propone è piuttosto quello di una fondazione della disciplina in questione. A tale fondazione appunto ha lavorato per anni e con interessanti risultati Don Giovanni Moioli: la sua prematura scomparsa ha conferito all’interesse della Facoltà per questo tema la forma dell’impegno a raccoglierne l’eredità.
La necessità di un più stretto nesso fra teologia e santità cristiana è stata già da molte parti raccomandata. La riflessione fondamentale sulla teologia e sul suo necessario debito nei confronti della pratica della fede, predispone le categorie per intendere il rilievo singolare che il vissuto dei testimoni eminenti della fede riveste per la teologia medesima. È questo un rilievo che non si riferisce esclusivamente al compito della teologia di elaborare le forme paradigmatiche di una vita secondo la fede cristiana; ma nasce più radicalmente dal valore di “luogo teologico” che ha da essere riconosciuto a tali testimoni, in ordine all’identificazione della verità cristiana medesima.